La televisione e la banale maschera del male

Riccardo Tavani

Nel 1960 i servizi segreti israeliani catturano a Buenos Aires l’alto ufficiale nazista Adolf Eichmann. L’anno successivo si celebra a Gerusalemme il processo contro di lui per lo sterminio di ebrei cui ha collaborato nel lager di Aushwitz. Il processo è ripreso e trasmesso in tutto il mondo da una troupe televisiva messa insieme dal produttore Milton Fruchtman.

Quello di Gerusalemme fu il più importante processo su gli orrori commessi dalla Germania nazista dalla prima metà degli anni Trenta alla fine della seconda guerra mondiale nel 1945. È stato preceduto da quello celebrato dalle potenze alleate vincitrici a Norimberga dal ’45 al ’46. Si trattò, però, del processo ai vinti dei vittoriosi. Mai vi era ancora stato, invece, un processo che facesse riemergere per intero l’immane, inimmaginabile orrore consumato in quell’intervallo della Storia europea.

Gli stessi sopravvissuti ai campi e trasferitisi in Israele non erano creduti nei loro racconti dei massacri e della riduzione dell’umano al sub umano che si consumarono sulla loro pelle e le loro ossa diventate macabramente un tutt’uno. Era esattamente quello che avevano previsto i nazisti: “Anche se uscirete, vivi di qui nessuno crederà mai a ciò che racconterete”.

Il processo di Gerusalemme voleva, doveva infrangere l’avveramento di questa profezia nazista e vi riuscì. Vi riuscì anche grazie alle riprese e alla messa in onda di questa troupe, diretta da un regista documentarista americano di origine ebraica, Leo Hurwitz, che era stato sulle liste di proscrizione del senatore Joseph McCarty, per attività comuniste e antiamericane, durante il periodo – dal 1949 al 1954 – che prese il nome di maccartismo.

Il film racconta le diverse fasi del processo, visto dal punto di vista delle difficoltà tecniche, politiche, di contenuto mediatico che questa produzione dovette affrontare per rendere al massimo – attraverso le immagini – la rilevante portata e posta storica in gioco in quel processo.

Dopo le prime giornate che ebbero picchi di audience vertiginosi, l’attenzione mondiale ebbe un calo repentino. L’intera produzione era messa in discussione. Ciò, però, non dipendeva dalle capacità tecnico-mediatiche della troupe, ma dalla capacità diabolica dell’imputato di spegnere tutto il dibattimento nell’atmosfera di un grigiore burocratico, di cui lui era l’espressione più eminente e impassibile.

Questo fu il vero grande drammatico tema del processo. La filosofa Hannah Arendt, inviata dal The New York a seguire il processo, trasse dagli articoli scritti quell’espressione e quel titolo fondamentale della filosofia moderna che è La banalità del male. Un grigio, mite burocrate che come un amministratore delle ferrovie tedesche si era limitato a ubbidire puntualmente, burocraticamente, gerarchicamente agli ordini ricevuti, assolvendoli al meglio delle competenze tecniche e di comando che era capace di esprimere. Come gli era richiesto. E come lui lealmente rispose. Quel male assoluto, quell’orrore oltre ogni soglia umana di comprensione aveva contribuito ad attuarlo uno come noi, anzi – uno di noi. Il male si spersonalizzava, nell’ingranaggio parcellizzato della produzione tecnica di cadaveri in massa.

Questo fu il nodo critico, anche di acute divergenze, tra il produttore, il regista, gli altri membri della troupe. Hurwitz voleva una delle telecamere sempre ben piantata e con un movimento a stringere sul volto impassibile di Eichmann, per coglierne anche il minimo cenno, battito di ciglia di umanità. Voleva smontare la troppo comoda etichetta di “mostro”, che già per definizione è qualcosa di eccedente, e dunque neanche di veramente processabile. Le vittime non potrebbero neanche reclamare un’autentica giustizia umana se i crimini ai loro danni fossero stati consumati in un mostruoso, demoniaco eccesso di follia del potere.

La stanchezza indotta dalla freddezza atonale, dalla immobilità facciale, muscolare di Eichmann è presto scossa, però, dai testimoni che cominciano a sfilare davanti ai giudici e a raccontare le scene di un orrore mai udito fino ad allora. Il mondo rimane inchiodato, ammutolito, colpito violentemente allo stomaco davanti a quelle agghiaccianti testimonianze. Centinaia di migliaia di esseri umani e di bambini ridotti in larve, trasportati, denudati, gassificati, bruciati, le montagne di cenere disperse nei fiumi.

L’SS Adolf Eichmann con l’elevato grado militare di Obersturmbannführer , responsabile del dipartimento RSHA, l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, solo davanti a quelle testimonianze e all’incalzare del Pubblico Ministero Gideon Hausner, ha un incontenibile, imbarazzato, ripetuto battito di ciglia, che il regista coglie e porta in primo piano con uno zoom dell’obiettivo in avanti. Una confessione di responsabilità interamente nella sfera dell’umano e non del diabolico.

Tra una pausa e l’altra del suo estenuante lavoro, parlando con interlocutori di Gerusalemme o con la signora polacca che gestisce il modesto residence in cui vive, Leo Hurwitz, domanda loro come ci si senta ad abitare una terra (la Palestina) appartenente ad altri. Non ha mai altra risposta che: qui ci sto bene. Un’altra tragedia, un’altra ferita che quel decennio di umano troppo umano orrore europeo ha avuto come conseguenza e che rimarrà chissà per quanto tempo ancora aperta, squarciata, sanguinante. Il male sale, si lascia estirpare in superfice, ma sembra rimanere ben attaccato alle radici.

Il film utilizza le vere immagini in bianco e nero del processo riprese e messe in onda da quella troupe televisiva.