Se Gino Strada fosse stato un  falegname in Abcasia

Riccardo Tavani

Tangerines, ossia Mandarini è un piccolo imperdibile gioiello di film, il quale, però, rischia di essere visto da pochi. È programmato, infatti, solo in poche città e in poche sale italiane. Proprio per questo bisogna citare e ringraziare la P. F. A. che lo sta coraggiosamente distribuendo, dato che tutti hanno presto dimenticato che questo film estone di Zaza Urushadze è stato candidato agli Oscar come Miglior Film Straniero.

La vicenda è ambientata nel 1990 in Abcasia, territorio caucasico della vasta Russia, sconosciuto ai più, eppure ferocemente conteso dalla Georgia, soprattutto quando questo piccolo Stato, bagnato dal Mar Nero, proclama la propria indipendenza. Per difendersi dal preponderante confinante invasore arruola anche contractors, ossia truppe mercenarie. E qui siamo subito al centro della geopolitica umana del film. Due mezzi militari belligeranti s’inseguono a colpi di mitragliatore pesante su una strada al limitare di un bosco abcaso. Uno dei due – una Jeep con a bordo due mercenari – finisce addosso alla siepe di una casa, l’altro mezzo – più grande – con tre soldati georgiani – si ribalta poco più avanti, crivellato dall’arma pesante di uno dei due contractors inseguitori. A pochi metri c’è la casa di Margus, non molto distante quella di Ivo. Il primo sta raccogliendo i mandarini dalla sua piantagione, l’altro gli sta fabbricando cassette di legno in cui metterli per poi trasportarli via. La loro è una corsa contro il tempo. Il tempo della guerra che avanza e rischia di mandare in malora i mandarini se resteranno a marcire sulle loro piante. Ma la guerra sembra arrivata prima. Quello scontro a fuoco davanti casa di Margus lo sta dicendo nella maniera più incontrovertibile. Ivo e Margus sono entrambi estoni, gli ultimi rimasti in quel lembo boschivo di terra, perché tutti i loro corregionali sono tornati in patria, cacciati dalle avanzanti ombre di piombo della imminente guerra.

Ci sono solo due superstiti nel conflitto. Un mercenario filo-abcaso, Ahmed, e un ragazzo georgiano, Niko. Quest’ultimo è quello ridotto peggio, con una brutta ferita sulla testa. Ivo, il vecchio falegname se li porta tutte due in casa. E li cura entrambi, facendosi portare medicine e un primo aiuto da un amico medico estone, in procinto di partire anche lui. Ahmed, il contractor, appena ritorna in sé e si rende conto che nella stanza a fianco c’è uno di quelli che ha ammazzato il suo amico d’infanzia alla guida della Jeep, dice a Ivo che è inutile curarlo, tanto lui lo scannerà.

Immediatamente – anche a causa dei tratti somatici e della barba bianca del falegname – noi capiamo come mai l’avevamo capita prima l’opera di Emergency e di Gino Strada che Ivo molto richiama. In una zona remota e spopolata del mondo, dentro la casa spoglia di un vecchio che vive solo, pure sotto la minaccia incombente delle armi e della follia della guerra, c’è chi applica un principio di razionalità contro ogni confine e pretesa di sopraffazione delle cose e dell’umano. Un principio di razionalità nella forma della cura e dell’offerta completamente gratuita non solo di salvezza ma anche di riscatto. La foto di Maria – la giovane bella nipote di Ivo – dentro una cornice su un mobile della casa, sembra essere l’immagine di una possibilità diversa, anche se lontana, da quella terra insanguinata sul bordo del cui mare fioriscono le tombe dei figli ammazzati. “Ha importanza da chi?”, domanda Ivo ad Ahmed.