Quando finzione e realtà si telefonano a Torino

Dal nostro inviato al festival Riccardo Tavani

Torino, venerdì 27 nov. È praticamente l’ultimo vero giorno del 33° Tff, e la città è sempre sentimentalmente e sensibilmente avvolta nel suo sole e nella luce limpida che viene dall’orizzonte innevato delle Alpi. Domani pomeriggio si sapranno già i vincitori delle varie sezioni, poi la sera avremo le premiazioni. Domenica 29, a partire dalle 15, nelle tre sale del Cinema Massimo si potranno vedere o rivedere tutti i film vincitori. Intanto gli organizzatori già delineano un primo bilancio, che conferma quello che già si è percepito ad occhio fin dai primi giorni del Festival, ossia un affollamento delle sale superiore a quello dell’anno precedente. La cifra ufficiale sarà resa domani, ma già si profila un 10% in più dei biglietti venduti rispetto al 2014.

Domani anche su questa pagina apparirà un mio bilancio, quale primo inviato di una sala cinematografica a un festival cinematografico. Intanto, avendo già nei giorni precedenti parlato di molti significativi film di fiction, oggi vorrei approfondire l’argomento documentari. Il Tff ha sempre riservato una sua particolare attenzione a tale suo versante, e a ragione. Contiamo circa una cinquantina di titoli, tra quelli contenuti nella sezione TFF/DOC e quelli sparsi nelle altre. Una squadra di selezionatori tra i maggiori conoscitori italiani di questo genere è stata messa insieme dal Festival di Torino, per introdurre film e condurre gli incontri con gli autori. È costituita da Paola Cassano, Mazzino Montinari, Severine Petit, coordinati dal responsabile della sezione Davide Oberto.

Inoltre, come abbiamo avuto già modo di dire, ormai il confine tra i due generi tende sempre più a smarrirsi. Lo abbiamo visto – soprattutto – con la trilogia Le Mille e Una Notte, del portoghese Miguel Gomes, e anche ne I racconti dell’orso, degli italiani Samuele Sestiere e Olmo Amato. La forza narrativa di diversi altri film, di ogni genere e nazionalità, risiede a volte proprio nell’aspetto documentaristico sociale, urbanistico di certe scene, inquadrature, sequenze sulle situazioni in cui si svolgono le vicende. Insomma, sembra che una nuova dimensione del documentario e della sua relazione con il cinema di finzione stia emergendo e, dunque, il Festival di Torino fa benissimo a seguirne le evoluzioni.

C’è, ad esempio, un documentario cinese, della durata addirittura di due ore, in cui questa mistione va oltre il cosiddetto docu-fiction. Va oltre perché le persone che vi appaiono, riprese nei momenti e nei luoghi nella loro vita reale, si fanno consapevolmente attori, traslitterando così impercettibilmente in scene di fiction quelle che sarebbero state normali interviste, racconti e dialoghi del classico documentario. Si tratta del fil Li Wen at East Lake (Li Wen al Lago dell’Est) di Luo Li (produzione Cina/Canada). Li Wen è un agente in borghese, collezionista di foto, giornali, ricordi della Rivoluzione Culturale, della quale conosce ogni aspetto e praticamente tutti i maggiori dirigenti del Partito di allora. Le sue indagini su alcune vicende illegali che avvengono attorno al lago sono in realtà un’indagine sul progressivo, sbalorditivo interramento di questo vasto e prezioso specchio d’acqua, fino a ridurlo a poco più che una pozzanghera. L’interramento è stato attuato dalle grandi imprese finanziarie e di costruzione, al cui servizio si sono messe le istituzioni locali e gli organi di partito. Non è un caso che la bolla edilizia, con il suo corollario di consumo esasperato del suolo, sia stata al centro dell’ultima crisi finanziaria cinese. Negli incontri e nelle conversazioni con le altre persone Li Wen mostra di possedere una sua sicura filosofia di vita, cinica, pragmatica, scopertamente opportunistica, con la quale impartisce lezioni di vita a tutti, senza nascondersi, però, dietro alcuna ipocrisia e non negando certe degenerazioni in atto. L’aspetto buffo della sua persona contribuisce a rendere sorprendente il suo recitar-parlando.

Anche nel documentario La Gente Resta dell’italiana Maria Tilli (62 min), assistiamo a un fenomeno simile da parte delle persone reali protagoniste del film. È un’indagine sulla realtà dell’Ilva di Taranto svolta, però, attraverso la testimonianza che ne danno tre fratelli, Antonio, Giuseppe e Cosimo, con le rispettive mogli, figli, nipoti, altri parenti, amici, ecc. La famiglia si chiama, appunto, Resta, così che il titolo assume un significato doppio: quelli che da Taranto non vanno via e restano e la gente di questa famiglia che ne diventa – già nel nome – l’emblema. Le riprese sono state fatte in diverse date e la conoscenza tra la troupe e i Resta si è così progressivamente approfondita, tanto che tutta la famiglia ha sentito il film come un’opera anche sua, trasformando i momenti di dialogo in famiglia – anche quelli intimi tra moglie e marito – in vere scene da film recitate senza copione, sulla scorta delle parole e dei gesti di tutti i giorni. Di film e documentari su Taranto e la sua terribile situazione industriale se ne sono fatti tanti – a cominciare da Marpiccolo di Alessandro de Robilant, con Michele Riondino, nel 2009 -, così che un ennesimo lavoro rischiava davvero di non aggiungere nulla. È proprio, invece, questo vedere il mostro Ilva attraverso tali persone, il loro legame con il mare, con i riti ancestrali della pesca, con gli affetti familiari, senza inquadrature dall’interno della fabbrica od operai con i caschi gialli in testa, a rendere interessante e meritevole l’opera.

Nel documentario A sud di Pavese dell’italiano Matteo Bellizzi, abbiamo che attori recitanti si fanno donne e uomini che si riuniscono in un gruppo di lettura – ad alta voce – delle opere di Cesare Pavese. Questo recitar-leggendo, però, è montato a metà del documentario. Nella prima parte si racconta, invece, il cambiamento di quelle mitiche Langhe piemontesi narrate in prosa e poesia da Pavese e testimoniate dalla sua stessa vita. Una energica viticoltrice è riuscita a tenere insieme i suoi vigneti, a raccogliere ancora una da vino, grazie a famiglie macedoni che si sono perfettamente integrate nel lavoro e nell’ambiente. Poi, nella terza parte, il film si sposta, attraverso una associata del gruppo di lettura, a sud, in Calabria, esattamente a Brancaleone, dove Pavese è stato confinato dal regime fascista dall’agosto 1935 al marzo 1936. La cosa singolare è che – a partire dalle Langhe a finire con la Calabria – a recare la memoria e la testimonianza di questo nostro grande poeta e scrittore sono quasi esclusivamente le donne. Singolare, perché ben nota è la misoginia di Pavese. Quasi un contrappasso.

La nuova vita del documentario è scandita anche dal suo rapporto con la tecnologia digitale, sia in fase di ripresa che di montaggio e post-produzione. Oggi un film di ottimo livello tecnico si può girare interamente con una macchina fotografica, ma il mobile, il telefonino sembra diventato uno strumento principe per realizzazioni particolari. In Italia ne abbiamo avuto un esempio con una serie di film-poesia al telefonino di Pippo Delbono, autore, regista, attore, performer geniale quanto irregolare. Il mobile consente un tipo di approccio più immediato, che passa quasi inosservato dalle persone intervistate o con le quali si discute. Al Festival di Torino lo ha confermato – nel suo incontro con il pubblico – Carmit Harash che firmato il documentario francese Où est la guerre (Dov’è la guerra). Nel 2012 l’autrice, trapiantata da Gerusalemme a Parigi, passa con il telefonino dalla sua casa, dove vive con un compagno che le legge versi di Baudelaire, alle strade, ai quartieri di Parigi, in particolare quello della Bastiglia. Qui – dietro l’immagine turistica e monumentale della città – documenta la tensione che cresce nelle pieghe del tran tran quotidiano, fino a condensarsi in atmosfera venefica. La regista, essendo nata e cresciuta in Israele, ha una sensibilità acuta, allenata per tali situazioni, e ne testimonia l’inesorabile accumularsi ben prima dello spietato attentato a Charlie Hebdo, con le drammatiche riprese del quale termina il film. Tra l’altro – attraverso i sottotitoli – possiamo finalmente leggere la traduzione delle parole dell’inno nazionale francese La Marsigliese che in questo ultimo periodo abbiamo ascoltato ossessivamente. Ci rendiamo conto di quanta più non accettabile e truculenta retorica contengano i nostri patri inni. Il telefonino è qui usato in maniera tecnicamente sporca – come si dice oggi – ossia attraverso riprese mosse, audio di discorsi e suoni urbani fuori campo, salti e sconnessioni di montaggio. La tecnica di ripresa scelta vuole essere il corrispettivo in immagine della drammaticità del contenuto testimoniato, e una rottura dell’immagine patinata a tutti i costi, anche al costo della verità, della Ville Lumiere.

Domani l’ultimo pezzo dal 33° Torino Film Festival con le considerazioni e un bilancio finale.