Il film Non essere cattivo appare e conquista subito le luci del cinema internazionale, quando il suo regista, Claudio Caligari, scompare all’età di 67 anni, dopo essere stato quasi tutta la vita nell’ombra, come un artista maledetto e misconosciuto. Eppure il suo primo film, Amore Tossico, del 1983, folgora immediatamente la critica, dopo che Marco Ferreri, l’indimenticabile regista de La grande abbuffata (1973), spende tutta la sua influenza per farlo accettare quell’anno alla Mostra di Venezia. È la vicenda quotidiana di un gruppo di ragazze e ragazzi che, tra Ostia e Centocelle, narrano da dentro le loro vene quella nuova, letale piaga sociale chiamata eroina, allora appena apparsa sulla scena giovanile italiana. È il giro di vite successivo di quello che Pier Paolo Pasolini chiama genocidio culturale. Un passaggio che il grande poeta e regista, morto nel 1975, fa in tempo sì a percepire ma non a descrivere a pieno. Dal genocidio causato dal consumismo economico si passa a quello provocato del consumo diretto di sostanze tossiche

 

Trascorrono, però, altri quindici anni prima che Caligari possa girare L’odore della notte (1998), con Valerio Mastandrea, poliziotto di giorno, rapinatore di notte. È grazie al sodalizio nato con l’attore che Claudio Caligari può girare, dopo altre tre lustri, il suo terzo e ultimo film. Mastandrea, infatti, mette in gioco tutto il suo prestigio per trovare i soldi e le condizioni per produrlo a nome proprio. Caligari scompare a Roma prima ancora che possa finire di montare la sua opera, così sono lo stesso Mastandrea e i suoi collaboratori a terminarlo, per poterlo presentare quest’anno a Venezia, anche se fuori concorso. Ora arriva il riconoscimento quale miglior film italiano da presentare ai Premi Oscar 2016.

 

Non essere cattivo è ambientato nella Ostia di metà degli anni ’90. Cesare e Vittorio, amici fin dall’infanzia, conducono a velocità battente la loro corsa verso l’autodistruzione tra consumo, spaccio e traffici illeciti legati a pasticche e sostanze psico-chimiche di ultima generazione. Accanto a questa pulsione vibra quella alla regolarità, al riscatto, alla sottomissione a un lavoro, anch’esso spesso illegale nei cantieri edili romani. Anche i sentimenti, l’amore, la stessa amicizia oscillano vertiginosamente verso queste due tragiche, inseparabili polarità. Non ci sono innocenza, ingenuità, candore esistenziale che non ne siano contaminati. È l’ultima inquadratura, la dissolvenza estrema su un mondo: quello, appunto, che Pasolini aveva cominciato a percepire, indagare e mostrarci nella seconda metà del secolo scorso. Il volto del nuovo – come quello del neonato in braccio alla madre nel finale – è ancora imperscrutabile, per quanto aperto a una labile luce di speranza.

 

Cesare è il nome del protagonista di Amore Tossico, Vittorio quello di Accattone di Pasolini (1961). I riferimenti, le citazioni, con cui Caligari nutre il suo film, sono, però, ad ampio spettro: vanno da Martin Scorzese, Brian De Palma, Fancis Ford Coppola. La ritmica cinematografica a pompa delle gesta tossiche è alternata a quella della descrizione di un paesaggio sulla linea morbida ma inesorabile, indifferente del crepuscolo. È la finis terrae et acquae del mondo pasoliniano: il suo Accattone spaccia ormai pasticche di ogni tipo in discoteca.

 

Forse Claudio Caligari avvertiva acutamente, dentro le proprie vene poetico-esistenziali, questa soglia di passaggio cruciale. La sua capacità mal-benedetta di una narrazione per immagini – che è insieme popolare e d’élite – non è stata riconosciuta dal mondo della nostra produzione cinematografica. In questo senso, molti sono stati davvero in tanti cattivi con lui, anche se – all’opposto – è un’eredità stilistica privilegiata quella che lui lascia al cinema non solo italiano.

 

(Riccardo Tavani)