L’onda-cinema torinese è alta duecento film

dal nostro inviato Riccardo Tavani

Torino, martedì, 24 nov. Quale primo e per ora unico inviato di una sala cinematografica a un festival di cinema non posso sottrarmi a certi doveri. Ossia: parlare delle sale nelle quali qui a Torino si svolge il 33° Tff.

Sono dodici sale, e tutte nel cuore della città. Cinque sale sono del Cinema Reposi, in Via XX Settembre 15, a due passi dalla grande stazione di treni, bus, tram, metro di Porta Nuova. Un po’ più avanti, alla fine di Piazza San Carlo, sotto la bella Galleria San Federico, si trovano le tre sale dello storico Cinema Lux, restaurato nel 2009, dopo circa cinque anni di chiusura, in una elegante e funzionale multisala. Proprio sotto la Mole Antonelliana – che ospita anche il Museo del Cinema, promotore principale del Festival – in Via Verdi 18, ci sono le tre sale del Cinema Massimo. In questo crocicchio si trova anche la sede della Rai, la quale ospita alcuni uffici logistici del Festival nel periodo del suo svolgimento. Procedendo sotto i portici dell’adiacente Via Po, alla confluenza con Piazza Vittorio Veneto, c’è il Cinema Classico, una sala unica, con platea e galleria, che ospita le proiezioni riservate alla stampa e agli accrediti professionali. Questa, potremmo dire, è perciò quella che più potrebbe essere gemellata con il nostro Cinema Farnese Persol di Roma. La circostanza che tutti i cinema si trovino nel cuore storico di Torino, contribuisce senz’altro al fatto che la città e suoi giovani sentano come proprio il Festival, facciano proprio l’evento e lo affollino benevolmente e costantemente.

Assolto questo preliminare dovere di inviato al Festival di una sala di Roma (oltre che di una testata giornalistica web, Stampa Critica), passiamo a parlare di alcuni film di questa giornata. Solo alcuni, perché questo 33° Tff si compone di 200 titoli, i quali, anche volendo è impossibile seguire tutti, perché sarebbe come vederne, in nove giornate, più di venti il giorno. E anche, per assurdo, a potere vederli tutti non se ne potrebbe certo poi, in questo spazio, riferire. C’è da precisare che c’è una sezione Corti, con film certamente di durata molto minore, ma ci sono anche diverse opere che stanno tra le due e le tre ore. Come detto nella corrispondenza di ieri, ci sono poi pure molti capolavori del passato, i quali, però, oltre a costituire una proposta irrinunciabile per i giovani, formano anche lo sfondo storico-tematico del Festival.

Oggi il Cinema Classico ha infilato, uno dietro l’altro, almeno tre titoli molto interessanti. Si tratta de I racconti dell’orso degli italiani Samuele Sestriere e Olmo Amato, The Forbidden Room (La stanza proibita), dei canadesi Guy Maddin e Evan Johnson, e A simple goodbye (Un semplice addio), della giovane regista e attrice cinese Degena Yun. Sperimentali e aperti al futuro i primi due, di impianto più classico ma teso e senza alcuna concessione alla retorica, al sentimentalismo il terzo.

I racconti dell’orso, ha suscitato consensi e dissensi. Si tratta di uno strano road movie, tra le solitarie e innevate lande scandinave, animate da due strane figure umanoidi, che s’inseguono, si perdono, si ritrovano, senza un vero filo logico narrativo, che non sia quello di una superlativa poesia e fotografia del paesaggio che esse animano.

The Forbidden Room è veramente una sintesi fulminante, caleidoscopica tra origine e futuro possibile del cinema. Realizzato come fosse un film muto, con tanto di didascalie, effetti e sfondi di cartapesta, viraggi di pellicola al seppia, utilizza in realtà le più avanzate tecniche elettroniche di montaggio, mixaggio e post-produzione. Pirati, briganti, maghi, imbroglioni, chirurghi, sommergibili, isole vulcaniche in un vertiginoso labirinto di immagini febbricitanti e umane vicende squisitamente cinematografiche.

A simple goodbye mette in scena con un realismo e dialoghi senza fronzoli la Cina di oggi, il dominante colosso economico planetario che è diventata. Una madre, una figlia e un padre mongolo – tanto orgoglioso, sprezzante quanto malato – che s’incontrano solo attorno al cerchio della reciproca indifferenza, ognuno preso dai proprio separati riti esistenziali e sociali. Il progredire della malattia paterna, costringe, però, la famiglia a un ritorno verso la terra, le abitudini, gli affetti, i ricordi d’origine mongola, dischiudendo uno spiraglio di pur flebile luce verso il futuro.

C’è una sezione del Festival che si chiama After Hours, nella quale sono presentati film tra l’horror e l’inquietante. Di uno di essi abbiamo già parlato sabato: Shinjuku Swan (Il cigno di Shinjuku), del giapponese Sion Sono. Ora parliamo di altri due titoli odierni: Evolution, di Lucile Hadzihailovic, di produzione franco-iberica e Bølgen/The Wave (Onda), di Roar Uthaug, Norvegia.

In Evolution ci troviamo su una sperduta e indefinita isola sull’oceano, in una comunità costituita di sole donne adulte e maschi adolescenti. Non ci sono né uomini adulti, né bambine o ragazze adolescenti. Il tutto si svolge tra la risacca e i frangersi delle onde sugli scogli, strani riti notturni delle madri, particolari farmaci e cure dei ragazzi in una struttura sanitaria costituita di sole dottoresse e infermiere. Sembra il rovesciamento del primo film della regista Innocence, dove ci sono solo ragazzine. La caparbia curiosità di uno dei ragazzini, muove a complicità affettiva una delle infermiere, che gli facilita la fuga dall’isola, non senza aver prima compreso l’arcano dell’isola e del titolo del film. L’evoluzione, infatti, consisterebbe, nell’adattamento genetico del maschio alla generazione dei figli, con relativo parto non uterino.

Molto più convincente, nel genere disaster movie, il film su un disastro ambientale, il norvegese Bølgen/The Wave (Onda). Quanto meno ti tiene incollato alla sedia, con un crescendo di suspense drammatica ed impressionanti effetti elettronici molto realistici. In un celebre fiordo norvegese, Geiranger, come nel nostro Vajont, si stacca un pezzo di montagna che crea un’onda alta ottanta metri. Uno tsunami spaventoso che travolge ogni cosa. Il protagonista è un geologo che ha capito in anticipo quanto sta avvenendo e lotta fino allo spasimo per salvare la sua comunità, sua moglie e i suoi due figli. Candidato per il suo paese agli Oscar 2016.

Una retrospettiva di due film è stata dedicata ad Augusto Tretti, autore e regista outsider, scomparso nel 2013. Due opere, rispettivamente del 1962 e del 1972, La legge della tromba e Il potere, che si sono visti oggi, uno in fila all’altro, alla sala Massimo 3. Una figura quella di Tretti che squarcia con il suo sguardo inconsueto una possibilità diversa per l’immagine e il racconto cinematografico.

La mattina, nella sede universitaria di Palazzo Nuovo, si era svolto un incontro con un altro personaggio del tutto particolare, Bruno Bozzetto, precursore e dominus creatore del nostro cinema d’animazione. A lui sono state dedicate una mostra e la proiezione della pellicola restaurata Signor Rossi, West and Soda.