Pazza pazza fuga rassicurante

Riccardo Tavani

La pazza gioia ha avuto una entusiastica accoglienza alla Quinzaine nel recente Festival di Cannes, seguita poi da quella nelle nostre sale. Questo non può che fare piacere, sia per il cinema italiano, sia per il regista Paolo Virzì, sia per le due splendide interpreti, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti.

La critica cinematografica, però, è altra cosa. Critica, dal greco antico krino, distinguo, è un indagine analitica che – soppesando aspetti positivi e negativi – valuta le varie componenti di una situazione, di un’opera per trarne un giudizio più approfondito e consapevole. La critica, perciò, pur essendo un atto pubblico non intende mettersi in sintonia o in concorrenza con il gusto del pubblico ma di fare un discorso di prospettiva per una migliore, crescente qualità di una scienza, di una disciplina, di un’arte. L’analisi critica, inoltre, prescinde dalle intenzioni dichiarate dell’autore e punta direttamente a quello che un opera mostra in sé e per sé. Prosperino pure, dunque, gli apprezzamenti e gli incassi di questo ultimo film di Virzì.

Detto sinteticamente e preventivamente, per non sfuggire alla domanda sul personale gradimento: l’autore mostra una grande, superiore maestria rispetto ai suoi precedenti lavori, ma questo non significa che non segni anche dei limiti. Limiti, però, che non sono solo individuali, ma riguardano tutta l’attuale situazione artistica e produttiva del cinema italiano.

La prima domanda che dobbiamo porci è se l’opera ci dica qualcosa di nuovo. La seconda è se lo dice in maniera nuova. Appare evidente che qui due sono i celebri precedenti che si prendono a riferimento: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman, del 1975, e Thelma & Louise di Ridley Scott, del 1991. Due donne in fuga non dalla violenza e dall’oppressione matrimoniale ma da una comunità di cura mentale nella campagna toscana. Più che legittimo, anzi encomiabile, prendere dei riferimenti elevati per reinterpretarli, aggiornarli, adattarli alla propria realtà. Questo, però, contiene già in sé un evidente rischio: quello non solo di non essere all’altezza del modello, ma anche di non farne avanzare contenuto narrativo e forma cinematografica.

I film sopra citati non sono commedie, La pazza gioia sì. Commedia amara, anche drammatica – come nella migliore tradizione italiana – ma pur sempre commedia. Sembra che il mercato cinematografico italiano sia destinato a puntare solo sulla commedia per tentare di incassare qualcosa. È ovvio che questa limitazione produttiva finisca poi per esserlo anche sul piano della qualità. La commedia – anche quella di livello superiore, come in questo caso – deve rispondere a precisi requisiti, quali il tono leggero sia sul piano narrativo che formale dell’immagine. Chi vuole fare altro, come Tornatore e Sorrentino, deve rivolgersi a più ricche produzioni ed estesi mercati esteri.

I due alti modelli di riferimento hanno già segnato la storia del cinema, ma era chiaro fin dalla loro prima apparizione che lo avrebbero segnato. La pazza gioia non lo sappiamo ancora, ma non appare così evidente. Ciò che soprattutto caratterizza quei due modelli è l’incontro/scontro drammatico con la realtà sociale esterna, sia alla famiglia-prigione sia alla prigione-psichiatria. Un dramma che ci fa capire meglio la genesi del dolore mentale dalle pieghe della normalità, della realtà aperta, ossia quella là fuori. Nel film di Virzì la peripezia delle fuggitive oscilla sempre attorno al baricentro delle vicende e dei luoghi familiari. Certamente non si può disconoscere che l’autore esibisca un incalzante, buon estro di situazioni paradossali, false, ipocrite, che colpisce poi con tagliente sarcasmo di battute, inquadrature e sequenze. Situazioni comunque mai di minaccia immediata o incombete. La stessa comunità terapeutica è più un nido di protezione che di crudele follia, sia dal punto di vista dei medici, degli operatori che dei malati. Questo sarà anche motivo di vanto per le nostre strutture sanitarie, ma resta il fatto che non si va mai davvero là fuori, neanche per ridere più amaramente o sentire più profondamente ciò che autenticamente causa male e malati.

Il finale è emozionante, coinvolgente, addirittura strappalacrime, perché scatta un immediato meccanismo di identificazione tra lo spettatore e una delle due protagoniste. Ci chiediamo, però, quanto questo impulso salga più dalla situazione ricreata o dalla qualità formale della sequenza, nel senso che a volte diventa troppo facile far scaturire lacrime e commozione con meccanismi non autenticamente drammatici ma solo superficialmente immedesimativi. Tutto quanto detto, ripetiamo, può essere riassunto nell’indicare quel limite originario, costitutivo insito nella scelta obbligata di produrre commedie che, per quanto dal sapore anche amaro e dalla tonalità pure drammatiche, non deve superare una certa soglia di criticità e di qualità cinematografica. Ossia: una pazza gioia sì ma alla fine socialmente tranquillizzante. E detto ancora sinteticamente – al di là della presente critica e tenendo conto dei suoi distinguo – anche da andare a vedere.