La morte, l’azione, la banalità del caso

Riccardo Tavani

Sembra che Woody Allen riesca a dare ormai il meglio di se stesso solo quando alla base dei suoi film c’è un solido riferimento narrativo esterno da seguire. È già successo nel 2005 con Match Point, rielaborazione fin troppo esplicita, anche se taciuta dal regista, del romanzo di Theodore Dreiser Una tragedia americana. In quest’ultimo lavoro, invece, il riferimento letterario esterno è Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij, autore e romanzo che pure sono almeno citati nel film. Al riferimento letterario, l’anziano regista aggiunge questa volta anche la filosofia: quella di Kant, Kierkegaard, Heidegger, Sartre e l’esistenzialismo in genere. Allen aveva bisogno di un protagonista forte, un filosofo che pensasse e – soprattutto – agisse radicalmente il pensiero della morte. Tema più volte messo al centro e ripreso sotto angoli diversi nella sua copiosa filmografia.

Si tratta di Abe Lucas, docente di filosofia in profonda crisi, senza più alcuno slancio speculativo e vitale. Arriva nel nuovo campus universitario preceduto dalla sua fama di autore radicale, impegnato politicamente, volontario nelle missioni umanitarie nelle più pericolose zone di guerra, ma privo ora di alcuno stimolo, passione intellettuale o erotica in grado di motivarlo. Vive da solo, a porte chiuse nella sua abitazione, non pranza con gli altri docenti, né li frequenta fuori del campus. Applica la famosa battuta teatrale di Jean Paul Sartre: “L’inferno sono gli altri”. Le uniche due persone con le quali lui riesce a relazionarsi sono due donne: Rita Richards, docente di chimica, e Jill Pollard, figlia di due insegnanti di musica. Rita prova a sedurlo fin dal primo giorno, ma inutilmente. Jill è sua allieva e completamente soggiogata dal suo fascino di maledetto, nonostante il suo duraturo fidanzamento altro con un altro studente, Roy. Anche a Jill, però, non va meglio che a Rita, nel tentare di buttarglisi tra le braccia. Abe è completamente refrattario a qualsiasi reiterazione di quell’inutile – ormai per lui – sedativo umano.

Poi in forza di un mero caso e di una decisione fulminea, irresistibilmente trascinante che il prof ne fa seguire, tutto cambia per lui e intorno a lui. Ritrova una ragione, uno slancio, un’energia vitale, passionale che da anni gli mancavano. Ribalta diametralmente la pulsione al suicidio che pure aveva platealmente manifestato davanti ai suoi studenti. Tutto si avvolge rapidamente attorno a una sorprendente, vorticosa bobina esistenziale. L’oggetto di tanto spasmodico interesse e del febbricitante piano d’azione di Abe è l’ingiusto giudice del luogo Spengler. Soltanto di sfuggita notiamo che il nome Spengler corrisponde a quello del famoso filosofo tedesco autore nel 1917 de Il tramonto dell’Occidente. Anche Lucas è il nome di un famoso filosofo e critico letterario ungherese, sebbene scritto in maniera diversa: György Lukács (1885-1971).

E anche un ascolto fortuito o i piccoli oggi della vita quotidiana, un anello, una piccola torcia elettrica sono espedienti narrativi cui Allen aveva fatto già ricorso per esemplificare la forza del puro caso nelle vicende umane.

Allen cerca di imbastire una trama con i toni e i ritmi della commedia anche sentimentale, che catturi il pubblico, per veicolare un discorso sulla morte, il quale – a sua volta – non sia affrontato attraverso elucubrazioni e situazioni drammatico-filosofiche, ma sul filo frizzante dell’azione, di una pulsione vitale, irrefrenabile, briosamente istintuale, non razionale, continuamente oscillante tra caso e necessità. Abe sembra trasformarsi nell’Übermensch, nell’oltreuomo di Nietzsche, che agisce ormai al di là del bene e del male che nella sua a-morale, a-razionale determinazione inciampa però nella banalità del caso. La morte si fa così tragica e ridicola, da commedia allo stesso tempo.

Se dal romanzo Una tragedia americana erano stati tratti altri due film Usa e un famoso sceneggiato televisivo italiano*, per il finale di questo Irrational Man la citazione d’obbligo è una commedia cinematografica italiana del 1962. È Il vedovo di Dino Risi, con le due mirabili interpretazioni di Franca Valeri e Alberto Sordi. Gli ascensori che scendono e salgono da un’epoca all’altra del cinema sono a volte davvero sorprendenti.

  • Una tragedia americana, 1931 di Josef von Stemberg
  • Un posto al sole, 1951 di George Stevens, con Montgomery Cliff ed Elizabeth Taylor
  • Una tragedia americana, 1962, Rai, di Anton Giulio Majano, con Werner Bentivegna, Virna Lisi, Giuliana Lojodice, Lilla Brignone, Luigi Vannucchi e Alberto Lupo.