dal nostro inviato Riccardo Tavani

 

Torino – in questi primi giorni del suo Film Festival – è grigia, apprezzabilmente rigida nella temperatura, a tratti moderatamente nebbiosa o chiazzata da pallido, gradevole sole autunnale. Non piove, però. Questo consente di spostarsi senza troppo affanno tra le dodici sale cittadine in cui sono distribuite le duecento pellicole di ogni genere, tipo e sezione che costituiscono questa 33a edizione del Tff.

 

Emanuela Martini, la storica direttrice dai capelli rossi del Festival, ha condotto personalmente in un affollato Cinema Classico una pre-apertura alla presenza del regista e dello sceneggiatore di Bella e perduta di Pietro Marcello, ora normalmente distribuito nelle sale di tutta Italia. È un omaggio al regista che con il suo La bocca del lupo ha vinto nel 2009 il premio della sezione documentari proprio qui a Torino e poi numerosi altri riconoscimenti, tra cui un Nastro d’Argento e un David di Donatello.

 

Tratta da una vicenda vera accaduta nella terra dei fuochi e delle bufale napoletane, l’opera ha un impianto da favola poetico-esistenziale del reale. L’autore porta sullo schermo delle abissali facce e voci di un’arcaica origine contadina e pastorale, che richiamano quelle del cinema e della poesia di Pasolini, sulla soglia del cosiddetta mutazione antropologica dalla società industriale e di massa italiana. Le inquadrature, i movimenti della macchina da presa, i tagli di montaggio, i gesti, le posture, il vagare tra fango, zolle, boschi e campi dei protagonisti-attori, tratti da quella realtà agreste, sono altamente poetici. Il cinema italiano – al di là dei suoi generi narrativi – ha bisogno di riattingere costantemente alla forza originaria di questa ancestrale, nuda voce poetica della terra. Perciò dobbiamo essere grati ad autori come Pietro Marcello, che rinunciano a generi maggiormente remunerativi sul piano economico e mettono la loro indubbia capacità tecnica e narrativa al servizio del poetico-esistenziale cinematografico.

 

Il Festival vero e proprio ha preso il suo avvio il pomeriggio nelle sale del centro cittadino e nella serata inaugurale all’Auditorium del Lingotto. Qui, Emanuela Martini, ha introdotto il film Suffragette, alla presenza della sua autrice- regista Sarah Gavron e della sceneggiatrice Abi Morgan. Un’opera ambientata nella Londra del 1912, con Helena Bonam Carter e Meyl Streep, sulla drammatica lotta delle donne per l’affermazione dei propri diritti.

 

Il Cinema Classico è riservato alle proiezioni per la stampa. Qui abbiamo visto – in ordine cronologico a tre importanti film. God Save the Child (USA 2015), di Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck, sull’abbandono ormai strutturale della autorevolezza genitoriale dell’infanzia. La forza del film è sulla non-recitazione ma pura bio-espressione forte, anarchica e reale di cinque veri fratellini frequentemente abbandonati a se stessi dalla madre (il padre è morto in un incidente d’auto) e in tutto accuditi dalla sorellina di 10 anni.

 

Mia madre fa l’attrice (Italia 2015), un garbato, convincente docu-fiction di Mario Balsamo su e con sua madre Silvana Stefanini, attrice non di primo piano negli anni ‘50 del secolo scorso. Antonia (Italia 2015) di Ferdinando Cito Filomarino, narra dell’amara vicenda esistenziale della nostra grande ma misconosciuta poetessa Antonia Pozzi. Morta nel 1938 a soli 26 anni, è spinta al suicidio dalla negazione ottusa e spietata del suo valore artistico e dei suoi sentimenti da parte di tutti gli uomini che aveva più cari, padre, professori, fidanzati.