L’Arca dell’arte tra le tempeste della Storia

Riccardo Tavani

Dopo la grande tetralogia sul tema del Potere nella Storia, chiusa con la rivisitazione del Faust di Goethe, il grande regista russo esplora in questo film il rapporto cruciale tra arte, storia e potere. Lo fa intrecciando diverse vicende ma – soprattutto – montando insieme nella propria opera finzione, ricostruzione narrativa e reale documentazione storico-cinematografia. Un cosiddetto docufiction, allora? No, perché è ormai proprio del cinema più attuale quello di servirsi delle sue diverse possibilità, generi e registri per dare luogo a un nuovo tipo di cinema. L’evoluzione dei vari media elettronici, la loro convergenza, le modalità di rapido passaggio dall’uno all’altro e la simultaneità della loro visione si stanno riverberando anche sulla produzione cinematografica.

La prima vicenda che intreccia, infatti, Sokurov è la comunicazione tra lui e il comandante di una nave che sta trasportando preziosi quadri sulla Manica. La comunicazione avviene tramite computer. L’oceano è in piena tempesta. Una telecamera inquadra la prua della nave sommersa e squassata da onde gigantesche. La moderna arca dell’arte rischia di affondare con tutto il suo inestimabile carico.

Questo primo quadro del dramma si riferisce a un’ipotetica situazione, relativa al presente o all’immediato futuro. Esso intreccia con quello del passato vissuto nella seconda guerra mondiale dalla più grande arca artistica del mondo, quella rappresentata dal Museo del Louvre a Parigi. Il 14 giugno del 1940 le truppe tedesche entrano a Parigi, mentre il legittimo governo francese fugge, riparando a Bordeaux. La Francia è divisa in due. È istituita una zona militare a nord, a ridosso delle coste atlantiche, direttamente sotto il tallone militare nazista. A sud è instaurato uno Stato Francese collaborazionista, che va sotto il nome di Governo di Vichy, presieduto dal generale Philippe Pétain. Il 25 giugno questo governa firma la resa imposta da Hitler. Da Londra il generale Charles De Gaulle inizia a organizzare la resistenza all’occupante.

Jacques Jaujard è nominato conservatore del Museo Nazionale del Louvre, mentre i nazisti affidano al loro generale, il conte Franziskus Wolff-Metternich, l’incarico di ispezionare l’immenso patrimonio artistico del Museo, con lo scopo di trasferirne una parte in Germania. Jaujard si preoccupa immediatamente di svuotare quanto più possibile il Louvre, mettendo le opere più trasportabili al sicuro negli immensi sotterranei degli antichi castelli francesi. Nei corridoi e nelle sale del Museo restano solo massicce e praticamente inamovibile sculture marmoree.

Il conte Metternich sorveglia attentamente questa operazione di Jaujard, ispeziona i castelli, prende attentamente nota di tutto e manda rapporti tranquillizzanti in patria. Tranquillizzanti e dilatori, perché ogni volta che gli è sollecitato l’invio di un’opera a Berlino, trova le scuse e il modo per sottrarsi al comando impartitogli. Tra Metternich e Jaujard si stabilisce una strana ma nobile alleanza. Sono due individui politicamente spregevoli: l’uno al servizio di un governo collaborazionista, fantoccio, l’altro ufficiale di alto rango di un regime criminale. Eppure stipulato tra loro un patto silenzioso ma infrangibile. Un patto nel sacro nome dell’arte.

Questo è il tema principale del film. L’arte è il vero codice genetico dell’Europa, ben oltre le ideologie politiche e i regimi in cui si costituiscono nella Storia. Un museo non è soltanto un contenitore di opere ma è la fondazione stessa di uno Stato. La similitudine tra il transatlantico che sta affondando nella Manica e il tentativo di salvare il Louvre, dal saccheggio nazista, delinea ora una sua pregnanza, la quale, però, non si ferma qui.

Il terzo intreccio, infatti, si lega proprio a questo tema. Sokurov, da grande artista russo del cinema, invidia Parigi, la Francia, per il riconoscimento di quel fondamento genetico-culturale che persino lo spietato esercito nazista gli ha decretato. La stessa cosa non è stata fatta con San Pietroburgo, che allora era stata chiamata Leningrado, con la Russia, che allora era Unione Sovietica. L’uomo di cinema presenta immagini della città devastata dalla guerra, stritolata dal ghiaccio, ammorbata dai cadaveri che a centinaia ingombravano le sue strade, i suoi marciapiedi. Per le truppe tedesche quella nazione, i suoi popoli erano l’inciviltà costituitasi in Stato e dunque un’entità da schiacciare, cancellare in ogni sua manifestazione.

Il quarto intreccio prende vita da due figure storiche che fuoriescono dai quadri del Louvre e prendono vita nei suoi ambienti di notte. Sono Napoleone Bonaparte e la Marianne, la mitica popolana simbolo della rivoluzione francese con il suo berretto frigio. Seguendo questo filo tocchiamo con mano quanto la sorte dell’arte sia legata a quella della guerra. La collocazione stessa di un’opera d’arte dalla guerra, da dove essa sia stata razziata e poi trasportata. La spedizione militare di Napoleone in Egitto e la conseguente rapina di grandi opere ne sono la prova più monumentale. Così come il ritratto umano è uno dei fondamenti storici e filosofici dell’Occidente, che altre civiltà, come quella islamica, ad esempio, negano. Il ritratto della Gioconda di Leonardo assurge al vertice, anzi, alla vertigine di questo fondamento della forma artistica nell’abisso del caos. Qualcosa che accade nel tempo, nella Storia, ma poi va oltre. È questa consapevolezza che accomuna Metternich e Jaujard, e che da ignobili servitori di un potere miserabile e folle, li fa assurgere a silenziosi e misconosciuti eroi del loro presente. Questo film, infatti, è uno dei riconoscimenti postumi loro tributato, nonostante le scarse tracce che ha lasciato la loro successiva vicenda esistenziale.

Oggi, però, più di ieri la nostra arte è sull’orlo di quel naufragio che il collegamento via web ci sta mostrando sullo schermo di un computer che viene a coincidere con quello cinematografico. Le stesse discontinuità narrative e di stile che l’opera di Sokurov mostra nell’intrecciare i quattro filoni è una testimonianza in immagine di questa crisi. Il finale del film, con lo schermo su fondo rosso e l’inno russo, ci fa capire che discorso qui iniziato da Sokurov avrà presto un seguito.