Dal mattatoio allo schermo, da Pechino ad Algeri

 

Dal nostro inviato al Festival Riccardo Tavani

 

Torino, giovedì 26 nov. Sono gli ultimi giorni del 33° Tiff e la città continua a sfoggiare il suo miglior cielo e il suo più seducente abito urbano d’autunno. La mattina si apre al Cinema Classico con due film in concorso: Colpa di comunismo, di Elisabetta Sgarbi, e The waiting room (Canada/Bosnia/Croazia) di Igor Drljaca. Sono, però, anche le ultime possibilità per il pubblico di vedere film, documentari e corti, prima della chiusura del Festival.

 

Un documentario – il terzo dell’autrice – è anche il primo film prima menzionato. Colpa di comunismo, ricava il suo titolo dal modo in cui le persone di origine rumena dicono “colpa del comunismo”, ossia della lunga dittatura di Ceauşescu sul loro Paese. È il racconto, soprattutto, di tre donne, Ana, Elena e Micaela, appena arrivate in Italia, tra le Marche e il Polesine, delle loro difficoltà a trovare un lavoro, ma anche dell’emergere di situazione da incontri tra l’erotico e il sentimentale con uomini italiani soli, che un po’ cercano di aiutarle nel trovare un’occupazione, un po’ le invitano la sera a ballare.

 

 

Sul versante Est Europa si muove anche The waiting room, opera seconda dell’autore. La situazione umana ha diversi punti in comune con il film cinese A simple goodbye, di cui abbiamo già parlato. Lì il protagonista era un piccolo produttore cinematografico mongolo, qui un attore bosniaco, che vive a Toronto con la sua seconda moglie e una figlia che poco lo apprezza e con la quale quasi niente comunica. In Canada, campa lavorando nell’edilizia, ma si arrabatta anche con piccole parti in teatro o cercando ruoli secondari in film e serie televisive, saltando da un inconcludente provino all’altro. Anche lui deve tornare al suo paese d’origine, dove ha lasciato la sua ex moglie gravemente malata di cancro. Gli è offerto, infatti, un copione nel quale interpreta quella che è stata davvero lì la sua vita reale. Il film intreccia la finzione con elementi della vera vita dell’interprete protagonista, Jasmin Geljo, sulla cui prova d’attore s’impernia – troppo – lo sviluppo dell’opera. Così, se anche qui il tono è asciutto, teso, il regista non riesce a raggiungere il rigore e la qualità stilistica di quello cinese.

 

A proposito di Cina, va segnalata una sua interessante produzione cinese associata con la Francia in Undergraound Fragance di Pengfei. Certe opere, come questa, ma anche come quella citata prima, svelano un genere che potremmo chiamare di sino-neo-realismo e niente meglio di esse ci fa toccare con mano le molte pieghe e piaghe nelle quali è schiacciata la realtà cinese oggi. In questo film si racconta dell’incontro tra due immigrati dalle zone interne a Beijing (Pechino) che vivono in due infime stanzette attigue in un labirintico formicaio abitativo sotto il piano stradale. Lei, in attesa di qualcosa di meglio, si sbatte tra lavoretti vari e, soprattutto, come ballerina di pole dance in un locale notturno. Lui gira per i quartieri recuperando con un furgone mobili vecchi in case in demolizione. Ha un incidente che lo porta a vivere provvisoriamente con gli occhi bendati. Quando conosce la ragazza – che lo aiuta nel proprio stato d’infermo che, come lei, è solo, senza famiglia o amici, il ragazzo è in questo stato di cecità. Sembra la situazione rovesciata di Luci nella città tra la fioraia e Chaplin. Impressionante la scena del nubifragio che si abbatte sulla città, allagando come nel naufragio di una nave, le “cabine” nel sottosuolo, con le persone che fuggono come topi, arrampicandosi e scivolando sulla ripida scala trasformata in una cascata. Si racconta anche la vicenda di un’altra famiglia, che ingoiata dai debiti, si fa pignorare tutto e alla fine rimane anche senza casa. Un vero mattatoio sociale. Uno sguardo talmente crudo sulla Cina di oggi che la metafora della cecità tocca davvero sensi stratificati e profondi. Colpa di comunismo o di capitalismo?

 

Molti sensi, molte facce, molte voci vediamo e ascoltiamo, nella sezione Doc/International, anche nel molto interessante Fi Rassi Rond-Point, un documentario di Hassen Ferhani, una produzione franco-algerina che ha già ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali.. Girato nel mattatoio di Algeri, nel quartiere Ruisseau, ci mostra una serie di semplici, anonime persone e di storie – drammatiche e quotidiane – che piano piano prendono rilievo, fino a costruire, pezzo dopo pezzo, un vero palcoscenico esistenziale.