ARRIVAL

Che lingua parla l’infinito?

Riccardo Tavani

“Arrival” è un film vestito di fantascienza che più di noi umani “qui e ora” non potrebbe parlare. Dodici enormi “gusci” spaziali volanti arrivano dallo spazio infinito, posizionandosi in altrettanti punti del nostro pianeta. Dentro ci sono degli “Eptapodi”, ossia esseri con sette altissime zampe. Da dove vengono, cosa vogliono non si sa. Le maggiori potenze terrestri si allarmano e si pongono in assetto di attacco ai dodici gusci. Gli americani stabiliscono un campo militare in Montana, dove staziona una delle astronavi. La base è sotto il comando del colonnello Weber ma essa è istituita all’unico scopo di dare modo a una delle massime linguiste del pianeta – la professoressa Louise Banks – di entrare in contatto con gli alieni, comunicare con essi per capire le ragioni del loro arrivo. Ad assistere Louise c’è il fisico teorico Ian Donnelly. Le grandi tende militari del campo sono attrezzate con centinaia di avanzatissimi computer, sistemi di comunicazione e in costante contatto con tutti gli eserciti mobilitati sulla terra, soprattutto con quello cinese, il quale è già sul punto di agire.

Ma che lingua parla una specie che viene dall’infinito? Ancora prima: siamo sicuri che essa si esprima attraverso qualcosa di simile a ciò che noi chiamiamo “linguaggio”? Queste sono le disperate, immani domande che Louise si pone, pressata non solo dalle proibitive difficoltà dell’impresa assegnatale ma anche dal tempo vertiginosamente ristretto concessole. Tutto il mondo è già con il dito sul grilletto nucleare pronto a fare fuoco. Dei molti, vani tentativi di comunicare che compie Louise, arrovellandosi il cervello con le sue alte conoscenze e teorie linguistiche o neurolinguistiche, al governo americano interessa solo che lei arrivi a porre immediatamente la domanda capitale: “Cosa siete venuti a fare qui?”. Anche perché gli esperti cinesi dichiarano già esauriti i loro tentativi di comunicazione e non hanno alcuna intenzione di aspettare i risultati degli altri. Nessuna delle nazioni in cui sono atterrati i gusci – d’altronde – ha alcuna volontà di condividere con le altre i propri dati. Se la Cina parte, molte altre le andranno istantaneamente dietro.

È qui che il film diventa urgentemente umano e attuale. Louise, infatti, è soprattutto angosciata dalla possibilità di equivoco. È possibile che una cosa che per noi ha un significato per loro ne abbia uno completamente diverso e che sulla base di tale difetto di comprensioni si scateni un conflitto catastrofico. La stessa parola “arma” potrebbe significare proprio “lingua” per gli Eptapodi. È esattamente quello che capita agli umani. Insistono sempre sul “dialogo”, ma il più delle volte sono destinati all’ambiguità, all’incomprensione, allo scontro linguistico e fisico. La base di questo equivoco ontologico, strutturale è nello stesso linguaggio umano. Le parole sono qualcosa di diverso dagli oggetti che indicano. La parola “pipa” – per citare un celebre quadro di Magritte – non è affatto la stessa cosa materiale che indica (e neanche l’immagine dipinta della pipa è la pipa stessa). L’indicare nominalmente un oggetto non significa per niente comprendere o comunicare l’essenza di quell’oggetto, che resta inesorabilmente e in gran parte inespressa. A uno stesso oggetto o stato di cose materiale, sotto un diverso parallelo storico, geografico, emozionale gli uomini possono assegnare significati profondamente diversi.

D’altronde il film prede a riferimento la teoria neurolinguistica di Sapir-Whorf. La estremizza, ha obiettato qualcuno. Sì, ma qui si tratta di un film, non di un saggio accademico, e quante volte opere narrative hanno saputo liberamente “pre-vedere”, intuire prima della scienza? Questa teoria dice che parlare, pensare, scrivere un’altra lingua cambia il modo di percepire il mondo. Si dice infatti che ogni volta che muore una lingua, scompare un intero mondo.

Mettiamo ora un sistema di segni – grafici, geometrici, matematici, acustici, mentali, epidermici (quello che volete) – che affondi le proprie radici nell’infinito spazio-temporale. Per la stessa teoria della relatività di Einstein in una tale dimensione tutto “avviene” simultaneamente. Anche le regioni più remote giacciono su uno stesso piano fisico universale, connesse in un presente storico permanente, senza tempo. Una lingua, ossia un complesso di segni che “parlasse” tale dimensione non potrebbe che esprimersi attraverso un’indistinzione tra passato e futuro. Vedere l’uno insieme all’altro. Non solo, ma esprimere anche una compenetrazione tra stati percettivi, logici e corporei-emozionali. Forse allora sarà davvero possibile immediatamente sentire lo stesso significato nell’espressione, anche se appena bisbigliata: “In guerra non ci sono vincitori, ma solo vedove”.

Il regista Denis Villeneuve, dopo “La donna che canta”, che sale su dalle viscere infuocate, mediorientali della terra in guerra, ci immerge in questa atmosfera cinematografica fredda, biancastra, opaco-sporca da “movie-scienze” abissalmente contemporaneo, offrendo anche alla protagonista una possibilità davvero stellare di prova d’attrice. Possibilità che Amy Adams – dopo la sua recente grande interpretazione di “Animali Notturni” – riesce a mettere a segno in pieno.