Riccardo Tavani

Ogni vera grande opera d’arte, in ogni campo, possiede la proprietà di dire sempre qualcosa di nuovo nel e del presente. Anzi, la vera grande opera d’arte è un presente perennemente in atto. Lo dimostra la messinscena di Amleto che il National Theatre Live realizza per il quattrocentesimo anniversario della morte di William Shakespeare. Una messinscena teatrale concepita fin dall’inizio per essere ripresa cinematograficamente, per mostrarsi dunque al contempo anche come un film per il grande schermo e per il più vasto pubblico internazionale. Così al presente insito nell’opera, il cinema offre il suo meccanismo tecnico e artistico in grado di avvolgere e svolgere perennemente il presente dentro il continuum stratificato delle sue immagini.

Un’ambientazione moderna, quella realizzata dal regista Lyndsey Turner, che restituisce all’opera del bardo inglese tutta la sua radicale attualità poetica, etica, politica, esistenziale. E anche ironica, icasticamente, beffardamente ironica. La scena è unica, ma muta mobilmente nel passaggio dei cinque atti di cui si compone l’opera. Un grande salone con una larga scala che sale fino a un ampio ballatoio e che funge ora da ambiente e spalti esterni del castello di Elsinore, ora da salone interno, o da casa di Polonio. Gettandovi terriccio e foglie in materiale sintetico si fa acido scorcio notturno esterno, umido campo di battaglia, gelido cimitero nel quale è sepolta Ofelia dopo il suo suicidio.

Tutta la scena si presenta come una vera e propria grande icona attraverso la quale passa insieme la sacralità e la maledizione, il canto e il disincanto, la follia e la lucidità, il tragico e l’ironico, il divino e il demoniaco. Gli attori, immergendosi in tale iconico, simultaneo transito degli opposti, sono scaraventati in una dimensione recitativa che li trascende. Le loro voci, la loro lingua e ogni muta gestualità risuonano insieme classicamente elisabettiane e corrosivamente moderne. Sono tutti in uno stato di abissale grazia.

Benedict Cumberbatch incarna un suo Amleto sarcastico, collerico, fragile, vulnerabile, bipolare che indossa una maglietta di Davide Bowie e porta scritto a vernice bianca “King” dietro la giacca lunga da principe. Il mondo lo scavalca, perché lui è incapace di agire, di vendicare il padre, di riportare la giustizia e sanare il marcio che regna in Danimarca. La sua è la tragedia, il collasso dell’azione: anche quando può uccidere lo zio usurpatore con la massima facilità rimane paralizzato. Immobilizzato dal dubbio, dalla riflessione, dal pensiero, dalla coscienza. Solo nella convulsione inconscia e febbrile dell’ultimo atto la spada gli scappa come di mano e compie, suo malgrado, il destino. Essere o non essere è il suo originario, radicale rovello: non certo agire o non agire. Nell’agire c’è già la negazione, la maledizione, la putrefazione dell’essere.

Se la tracotanza del potere lo scavalca, Amleto, invece, sa cavalcare, anzi sa far galoppare magistralmente il senso di una poesia precisa, affilata, devastante che è la sola in grado di denudare le nefandezze del regno umano nell’infinito spazio-tempo universale che il teatro sulle sue assi riesce a rappresentare e il cinema a svolgere sullo schermo.

Assistere a questa rappresentazione teatrale e messa in cinema di Amleto, è come ascoltare una grande sinfonia o opera lirica nelle mani di un grande direttore d’orchestra che sa farne improvvisamente apparire significati e sensi finora inauditi. Si rimane scossi dal furore di questa messinscena, ma nello stesso tempo si esce entusiasmati da ciò che ci ha fatto esperire razionalmente ed epidermicamente. Certamente domani Amleto di Shakespeare non solo sul testo scritto si studierà, ma anche su questo testo per immagini che ha il potere di scriverci dentro.