A Torino la faccia adolescente del nostro cine-futuro

 

Dal nostro inviato Riccardo Tavani.

 

Torino, mercoledì 25 nov. La città riserva a questa 33a edizione del Tff le sue migliori giornate di sole e buon tempo permanente. Torino può così sprigionare tutto il suo fascino di capitale storica e culturale, srotolare davanti ai nostri occhi il tappeto pressoché ininterrotto dei suoi portici affollati, i parchi morbidi e sempre curati, i viali alberati con le foglie d’autunno che cadono sul passaggio dei tram in una scena davvero da grande film d’arte.

Aggiungiamo oggi un altro tassello d’informazione sul Festival. Il Tff, oltre ad avere una sua direttrice ormai storica, Emanuela Martini, ogni anno ha un guest director, scelto tra figure di spicco del cinema nazionale e internazionale. La scorsa edizione il guest director è stato il regista italiano Paolo Virzì, quest’anno è stato scelto Julien Temple, autore britannico che si è affermato sulla scena internazionale per i suoi documentari, film e video-clip delle più grandi pop-star e band musicali, tra le quali David Bowie e i Depeche Mode. Temple ha curato una sezione del Festival da lui chiamata Matters of life and death (Questioni di vita e di morte). Tra i film selezionati, oltre all’anteprima italiana del suo The Ecstasy of Wilko Johnson, e al sempre suo Oil City Confidential del 2009, figurano opere surreali, poetiche e fantasiose di grandi registi del passato come Jean Cocteau, Ingmar Bergman, Michael Powell e Emric Pressburger, Andrei Tarkovsky.

Un’altra informazione riguarda le repliche dei film presentati, che sono tre per ognuno, dislocate in giorni, orari e sale diverse nel periodo del Festival, così che il pubblico possa meglio organizzarsi avere diverse possibilità di visione.

La mattina cinematografica comincia, come al solito, alle 9 di mattina al Cinema Classico. Sono presentati alla stampa, uno si seguito all’altro, due film in concorso. Nell’ordine sono: Keeper, una cooproduzione belga-franco-elvetica dell’esordiente Guillaume Senez, e John From, del portoghese João Nicolau.

Non è la prima volta che il cinema porta sullo schermo la vicenda di una ragazza poco più che adolescente, la quale – contro tutti – vuole tenere il figlio che ha in grembo. Keeper, però, sembra insistere più sulla paternità per la quale il quindicenne Maxime si decide con nettezza, dopo aver messo incinta la sua coetanea Mélanie e averne respinta, in un primo momento, visceralmente l’idea. Un film che muove corde intime profonde del pubblico, anche se non presenta innovazioni da un punto di vista della forma cinema, ossia del come si racconta cinematograficamente oggi un tema già esplorato nel passato. È proprio, però, sul tema del futuro che questo titolo si staglia, in modo del tutto particolare, sia nello sfondo sociale odierno, sia nella complessa rete tra passato e avvenire che festival torinese sempre intesse. Niente come la nascita di un figlio rappresenta l’idea di futuro che si dischiude. Se poi tale figlio-futuro è affermato da due adolescenti, i quali dovrebbero essere già essi il futuro in atto, allora qualche considerazione va fatta. Si parla, infatti, già da parecchio tempo di generazioni no-future, che non vedono il futuro davanti a loro e che – forse – non lo hanno davvero, almeno quello che fino a oggi si è inteso con questo termine. Ecco allora che un racconto come questo sembra scaturire inevitabilmente, come necessità, da uno stato di fatto dell’epoca in corso. E non è neanche un caso che altri due notevoli film, dei quali abbiamo già parlato – l’argentino La Patota/Pauline e il cinese A simple goodbye – conducono la loro vicenda verso la nascita di un figlio, anche contro ogni condizione avversa che le si oppone. Ostinata riaffermazione biologica della specie, contro la stessa follia distruttiva umana, o barlume luminoso che sale da qualcosa di più abissalmente sepolto nel nostro ontologico sostrato esistenziale?

Anche la vicenda di John From ha il suo centro sull’adolescenza proiettata verso il futuro, anche se in chiave di ironica e multicolore commedia lisbonese. Un film che appartiene al genere oggi detto del coming of age, riferito al percorso intrapreso problematicamente da adolescenti per uscire in qualche modo dal loro confuso presente. La sedicenne Rita, interpretata dalla debuttante molto sicura di sé Julia Pahla, spalleggiata dalla sua amica del cuore Sara, decide di innamorarsi di un fotografo, Filipe, venuto ad abitare da qualche giorno nell’appartamento sottostante al suo. L’uomo ha un bebè, ma vive da solo, senza una moglie o una compagna, e non sembra occuparsi d’altro che della sua professione e di una sua mostra di foto scattate nella Melanesia. Non sembra neanche un granché felice, pur se non proprio infelice. La ragazza si fabbrica man mano tutto un suo mondo di sogni esotici e romantici, che non sfiorano neanche remotamente il tram-tram quotidiano del suo oggetto d’amore. Il titolo John From è Rita stessa ad appiccicarlo al suo idolo e deriva dal modo in cui si presentò ai melanesiani – scambiato quasi per una divinità – il soldato americano che per primo mise piede su una di quelle isole: John from (Usa). Rita ha le idee chiare sul suo futuro, e anche la furbizia, il fascino ingenuo ma caparbio per ottenerlo. Vuole quell’uomo, lo vuole dentro un mondo di sentimenti colorati ma sicuri. È lei che fa precipitare dal suo nebbioso cielo l’aereo di Filipe John From sulla sua incantata Melanesia interiore e a conquistarlo di fronte a tutto il mondo. Anche qui: solo una reazione immaginifica e cromatica, luminosa ed esotico-fiabesca alla nube buia del no-future giovanile, o la necessità di imprimere una spinta anche al mondo passivo e senza più entusiasmi degli adulti? Due piccole notazioni: il regista João Nicolau e la sua sorella Mariana Ricardo sono stati rispettivamente montatore e collaboratrice di Miguel Gomes, autore di quella moderna e geniale trilogia lusitana Le mille e una notte di cui abbiamo già parlato. Nel cast c’è anche Leonor Silveira, come madre di Rita, attrice musa di Manoel De Oliveira.

A proposito di giovanissime età, nella sezione, Tff Doc, relativa ai documentari, va anche registrato Flotel Europa, coproduzione serbo-danese di Vladimir Tomic, su un battello che a Copenaghen diventa rifugio per molti profughi bosniaci. Già presentato alla Festival di Berlino, sono assemblati in esso i materiali in VHS girati o raccolti dall’allora dodicenne regista a bordo di quello scafo galleggiante, per essere spediti ai familiari rimasti a casa. Emergono eco, tracce, ricordi, suoni, musica di quella guerra che li ha fatto tremare la loro terraferma.