A Torino il Festival chiudendosi si apre: al futuro

Dal nostro inviato al Festival Riccardo Tavani

Torino, sabato 28 nov. Dieci giorni di rassegna, dodici sale nel cuore della città, duecento film,: questo la carta di presentazione della 33° Torino Film Festival. Quella di chiusura è un bilancio artistico senz’altro positivo, con il 10% in più di biglietti venduti.

Titoli del passato come La Guerra dei Mondi, Il seme dell’uomo, La macchina del tempo, Alphaville, Fahrenheit 451, Dottor Srtanamore, Il pianeta delle api, Blad Runner, e molti altri – radunati nella sezione Cose che verranno – hanno fornito la base solida su cui poggiare le proposte del cinema di oggi aperte verso il futuro. Dobbiamo considerare che il Tff è un evento sentito, vissuto e fatto proprio dalla città, soprattutto dai giovani che affollano ogni tipo di proiezione. Niente di più appropriato, dunque, che un discorso sul futuro. E su questo tema apriamo una prima considerazione.

In quei celebri classici riproposti a Torino, il futuro è immaginato in termini scientifici, di assetti politici, sociali, urbanistici, ecc. Il futuro ferveva ieri, con le sue speranze e paure. Il futuro assumeva un suo volto fantascientifico, ma con vicende umane e anche di alieni, ma ben identificabili. Nelle pellicole di oggi, invece, il futuro non presenta alcuna sua faccia fanta-immaginativa. Il nostro presente cinematografico, al pari di tutta la generazione no-future, senza avvenire, non sa immaginare città, governi, dittature, rivolte, passioni del futuro. Le opere di oggi – almeno quelle viste a Torino – è nella forma che si dischiudono al futuro. Spingono il loro sguardo verso il futuro, tracciando le linee sperimentali di nuove possibilità che ha il cinema di scrivere immagini sullo schermo. Tale apertura della forma cinematografica a venire è forse anche più forte di quella del cinema classico.

In mezzo a queste due polarità – riproposizione del passato e proposta del futuro – il Festival fa vivere il presente di opere dall’impianto narrativo più classico. Questa è la zona centrale che la rassegna tende tradizionalmente a favorire, almeno nei riconoscimenti, anche perché è quella che tiene insieme la fascia maggiore del pubblico. In questo si potrebbe muovere una critica di pavidità tanto alla direzione quanto alle giurie che si susseguono negli anni. C’è da dire, però, che nelle tre opere vincitrici dei maggiori premi il tema del futuro è incapsulato nella vicenda stessa, culminante nella nascita di un figlio.

E sono addirittura due poco più che adolescenti a volere – contro tutti – far nascere il figlio che lei aspetta nel film Keeper di Guillaume Senez (Belgio/Svizzera/Francia, 2015), cui la giuria presieduta da Valerio Mastandrea ha assegnato il premio di Miglior Film. Anche nel film La Patota/Pauline di Santiago Mitre (Argentina/Brasile/Francia, 2015), Premio Speciale della Giuria, è il figlio di uno stupro che la protagonista vuole – anche contro se stessa – tenere, proprio per aprire a una possibilità, a un futuro diverso per la lontana comunità agricola in cui ha scelto di operare e vivere, rinunciando alla carriera assicurata dai suoi privilegi di nascita. Un’opera davvero forte questa, nella quale a un grande personaggio femminile ha corrisposto la piccola ma formidabile attrice Dolores Fonzi che stra-meritatamente si porta a casa il Premio di Migliore Attrice. A un’opera cinese e a una messicana, va ex-aequo il Premio per la Migliore Sceneggiatura. A simple goodbye di Degena Yun è un film, forte, teso, senza concessioni ad alcun tipo di retorica, sulla attuale condizione sociale e familiare nella Cina di questi giorni, nuovo supercolosso economico mondiale. Nell’assoluta indifferenza e mancanza di affetti nei rapporti tra una figlia, una madre e un padre morente, la nascita di un figlio della ragazza accende come un pur labile raggio di speranza verso un futuro diverso.

Quello messicano Sopladora de hojas (Soffiatore di foglie) di Alejandro Iglesias Mendizábal, narra di tre ragazzi alle prese con un banale imprevisto quotidiano, il quale funziona però, in chiave di commedia, come un passaggio esistenziale verso la futura formazione del loro carattere e personalità. Il Premio del Pubblico è andato al convincente Coup de chaud (Colpo di caldo) di Raphaël Jacoulot (Francia, 2015), una vicenda che sembra invece non offrire spirargli di apertura al futuro, in quanto negato alle persone diverse per condizione sociale, fisica o psichica. Karim Leklou, davvero folgorante ma mai esagerato interprete di un disabile psichico, vince il Premio di Migliore Attore.

Delle opere che segnano un’apertura verso la forma futura del cinema, va fatta una considerazione preliminare. I confini tra i generi, soprattutto quelli tra fiction e documentario si assottigliano, fino a scomparire del tutto. Il film diventa un’opera totale. Questo lo si è visto soprattutto nella stupenda, geniale trilogia Le mille e una notte (Arabian Nights), del portoghese Miguel Gomez. Di questo classico della letteratura mondiale, l’autore assume soltanto l’impianto narrativo, per parlarci del Portogallo di oggi e con esso dell’intera Europa e Occidente. Così, accanto a lunghi brani di fiction in costume con una bellissima e affascinante Sherazade, appaiono all’improvviso facce del presente, operai dei cantieri navali, addestratori di fringuelli canterini, cacciatori di nidi di vespe, disoccupati intellettuali, ragazzini di strada che ci raccontano le loro particolarissime ma universali vicende. E poi ci si ritrova ancora nella fiction visionaria, labirintica, drammatica, ironica con la quale l’autore fa davvero passare le ore del racconto a dorso di un cammello attraverso la cruna dell’ago di un cinema sena inizio e senza mai una vera fine.

Tra i tanti meritevoli film, citiamo solo i seguenti. God Bless the Child di Robert Macholan e Rodrigo Ojeda-Beck (Usa 2015). Quattro incredibili veri fratellini di varie età e una sorella maggiore di solo dieci anni che li accudisce in tutto e per tutto. Il padre è morto in un incidente e la madre va via spesso di casa, scomparendo per intere giornate, troppo presa dai suoi trip esistenziali. È una presa diretta sull’assenza degli adulti che si fa vero film per la grande spontanea capacità scenica dei bambini. The forbidden room (La camera vietata) di Guy Maddlin e Eva Johnson (Canada). Qui passato e futuro del cinema davvero si toccano, incrociano, scoccano insieme in un mirabolante pastiche-montaggio di immagini e situazioni cliché dei primi film, con didascalie, viraggi in bianco e nero, seppia o altri colori, il tutto trattato con le nuove tecnologie virtuali, in un racconto ipnotico, travolgente senza una vera trama e fine che non sia il caleidoscopico vortice delle situazioni del passato-futuro immaginario filmico. I Racconti dell’orso di Samuele Sestieri e Olmo Amato (Italia 2015). I sogni di una bambina che si addormenta mentre è in auto con il padre e vede stupende, solitarie lande nordiche, animate dalle presenza di due strane figure che s’inseguono, si perdono, si ritrovano. La grande fotografia che fa da sfondo al film sfugge al genere reportage naturalistico, proprio grazie all’invenzione di questo piccolo stratagemma narrativo, in grado di connotarlo di un’interessante valenza umana, aperta a nuovi sviluppi e possibilità.

Per i documentari il Premio Miglior Film Internazionale se lo è aggiudicato Fi Rassi Rond-Point di Hassen Fehrani (Algeria/Francia), girato nel mattatoio di Algeri. Il Premio Speciale della Giuria è andato a Gipsofila di Margarida Litão (Portogallo). Per Italiana.Doc, in collaborazione con Persol, il Miglior Film va a Il Solengo di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (Italia, 2015), mentre il Premio Speciale della Giuria è assegnato a La Gente Resta di Maria Tilli (Italia 2015). Di tutti i film premiati l’inviato speciale del Cinema Farnese Persol al 33° Torino Film Festival vi ha nei giorni precedenti debitamente parlato.

Tutti i premi sui numerosi siti del Tff.