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Il Labirinto del silenzio, Germania 2014, 124 minuti.

I giovani al centro della contesa tra memoria e rimozione, tra verità e menzogna

Riccardo Tavani

I giovani sono sempre drammaticamente al centro della Storia. La guerra li chiama e li dilania sulle trincee della verità e della menzogna.

La memoria e il suo opposto, l’oblio, si combattono, infatti, contendendosi la stessa terra, la medesima patria: quella dei ricordi. La prima vuole conservarli, il secondo cancellarli. È una lotta senza quartiere e senza frontiere. In essa l’oblio si serve di due armi micidiali: la negazione e la rimozione. Negare che qualcosa – nella propria vicenda individuale e collettiva – sia accaduto, o rimuoverlo, occultarlo completamente a sé e al mondo. La memoria deve condurre una battaglia di giustizia davanti al tribunale della verità, interiore, privato o pubblico che sia. L’oblio come negazione e rimozione diventa, infatti, innanzitutto silenzio, menzogna, labirinto dell’ingiustizia.

È quello che avviene in questo bel film dell’italo-tedesco Giulio Ricciarelli, attore di numerose pellicole, passato ora dietro la macchina da presa. Il regista si muove sulla base di fatti e personaggi storici reali, anche se altri sono stati narrativamente, drammaticamente sintetizzati, riscritti. Ad esempio, il protagonista è una sintesi, una riscrittura di tre persone storiche reali che operano nel 1958, data di inizio di questa vicenda, nella Procura di Francoforte sul Meno.

Un giovane avvocato, Johann Radmann, appena terminati i suoi brillanti studi in Legge, prende servizio presso la Procura di Francoforte. Sul suo tavolo di lavoro mette una foto da bambino insieme a suo padre con la scritta a penna nell’angolo in basso: “Fai sempre quello che è giusto”. Suo padre, ora morto, era anche lui un giurista. Gli affidano soltanto infime pratiche concernenti infrazioni stradali, anche se la sua ambizione – legittimamente – è un’altra. Da notare che Rad (alla radice del cognome del protagonista) in tedesco significa ruota. E proprio come la ruota della storia, lui si troverà a farla girare nel senso della verità e della giustizia.

I nazisti dissero spavaldamente che se anche il mondo fosse venuto a conoscenza dell’esistenza dei campi di sterminio, nessuno avrebbe creduto ai racconti dei sopravvissuti sull’orrore che avveniva al loro interno: tanto assurdo, mostruoso, assoluto era tale orrore. Non erano andati lontani dal vero, riferendosi soprattutto al loro paese, la Germania. Un paese che aveva voltato la testa da un’altra parte, chiuso completamente gli occhi e le orecchie. Aveva fatto finta di non vedere e sentire le vistose tracce e voci sullo sterminio che Hitler, il loro Führer, ossia la loro Guida, stava attuando.

 Il Processo di Norimberga del 1945, che le forze alleate vincitrici celebrano contro il regime nazista, le condanne che infliggono alle sue gerarchie e la successiva denazistifcazione della società, sono considerate dai tedeschi solo misure che ogni vincitore impone agli sconfitti. Sono prese per mere misure bellico-amministrative, al pari dei risarcimenti economici dovuti per le spese e i danni di guerra.

 La giovane democrazia, imposta alla Germania dai vincitori, continua a poggiare il suo corso su negazione e rimozione. I giovani alla Radmann ereditano quella forma di cecità, mentre molti, tra gli anziani, restano convinti in cuor loro che il Terzo Reich ritornerà in auge, dopo una breve sconfitta e parentesi storica.

 Imbattutosi in un minimo frammento della memoria negata e della verità rimossa, il giovane avvocato Radmann si trova immediatamente difronte a tutta la posta del presente e del futuro in gioco: la giustizia come miseria mortale o ricchezza morale di una nazione. Che gli americani e gli altri alleati vittoriosi sella Seconda Guerra Mondiale abbiano celebrato un processo di natura bellica, non gli basta, perché la Germania non hanno fatto proprio un accidente di niente per riscattarsi.

 Di fronte alla Storia, al passato della sua patria, della propria gente, un ragazzo è sempre come un bambino appena venuto al mondo, o un naufrago che ha appena raggiunto la costa di un continente sconosciuto: deve scoprirlo da capo e per intero. Radmann fa di più: lo mette allo scoperto non solo sulla superficie ma anche nei sotterranei in ombra dell’orrore, fino alle viscere più intime che sono le sue stesse proprie viscere.

 “Perché proprio me ha scelto per l’indagine?domanda il giovane avvocato al Procuratore Generale Fritz Bauer.Perché lei è nato dopo quei fatti”, è la risposta del vecchio giudice. Walter Benjamin – il noto filosofo ebreo tedesco, costretto al suicidio per sottrarsi alla cattura dei nazisti – avrebbe aggiunto che proprio perché proiettato verso il futuro quel giovane avrebbe potuto restituire una voce e una possibilità di riscatto a chi della generazione precedente si era battuto contro l’orrore di quello sterminio passato alla storia con il nome di Shoah.

 Il processo sugli eccidi di Auschwitz si è celebrato a Francoforte dal 1963 al 1965, subito dopo quello contro il gerarca Eichmann a Gerusalemme nel 1961. Entrambi questi processi sono alla base di due importanti opere, una teatrale, l’altra filosofica. Dagli atti del processo di Francoforte Peter Weiss ha tratto la sua pièce L’istruttoria. Da quello di Gerusalemme, Hannah Arendt ha stilato quella serie di articoli per il prestigioso giornale americano The New Yorker, raccolti poi nel celebre volume La banalità del male.